L’innesco dell’interesse di chi scrive sullo studio del fenomeno degli “Urban Center” è dovuto fondamentalmente all’attivismo culturale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica che all’inizio degli anni 2000 cominciò a proporre questa tematica in relazione al tema dell’innovazione dei processi di democrazia partecipativa, una questione che sulla scia di mature esperienze internazionali iniziava a collocarsi al centro del dibattito anche in Italia.
Al riguardo, mi permetto di fare un breve cenno “storico” a tutta l’attività che abbiamo svolto con Stefano Stanghellini e Manuela Ricci fin dai primissimi anni della rassegna “Urbanpromo”, organizzata annualmente da Urbit a Venezia e successivamente in altre sedi; nella seconda metà degli anni 2000 abbiamo organizzato con regolarità una serie di incontri con ospiti di caratura nazionale e internazionale per aprire il tema ad una discussione più ampia e fare il punto sulle “contaminazioni virtuose” provenienti soprattutto dagli Stati Uniti, ove il fenomeno si era esplicitato con anticipo e singolarità identitaria rispetto alla dimensione europea.
Nella prima parte del contributo ho ritenuto utile focalizzare l’attenzione su alcuni concetti chiave di carattere generale, concernenti la questione delle forme di esercizio della democrazia partecipativa per il governo della città, per poi mettere in evidenza sinteticamente il nesso logico con il tema dell’attivazione e gestione di strutture quali “Urban Center” o “Case della Città” cosi come si sono sviluppate e articolate nei vari modelli a livello internazionale e nazionale.
1. Partecipazione e modelli di democrazia
Il punto di partenza di queste riflessioni s’incardina su una definizione di Urban Center proveniente da una delle strutture storicamente più antiche e consolidate nel mondo americano, quella di San Francisco Planning and Urban Research Association (SPUR):
“Urban Center is a term used to describe any institution whose core mission is to inform and engage the citizens in urban planning and public policy.
Around the world these kinds of institutions are fast becoming the most effective way cities can facilitate community involvement.
Because they are supposed to offer a non-partisan, centralized location for all urban planning and design policy, UCs should be the perfect neutral ground for city officials and community members to hold discussions and debates on proposed changes to public policy and the built environment” (SPUR, 2007)
Rilevano con grande chiarezza le missioni principali secondo l’interpretazione che è stata data nella dimensione californiana: il focus sulle tematiche dell’informazione, della comunicazione, del coinvolgimento dei “community members” e la questione della discussione, del confronto, del dialogo.
Come ci ricorda Carlo Olmo, il quale con l’esperienza di Urban Center Metropolitano (UCM) di Torino ha introdotto in Italia uno stile identitario preciso, dialogo significa etimologicamente “discorso tra diversi”; dunque, attraverso il dialogo si deve cogliere la capacità di mettere in relazione non una sola indistinta e astratta comunità ma le molte e frammentate comunità che si sviluppano all’interno delle realtà urbane e territoriali contemporanee.
Di ulteriore rilevanza è la questione dell’ ”arena neutrale”, una tematica sollevata originariamente nel contesto statunitense, legato alla cultura giuridica “Common law”, un approccio nel quale non necessariamente le strutture per la partecipazione sono incardinate al governo della città, all’amministrazione pubblica, ma sono invece emanazione di altri soggetti, altri portatori di interessi. Da qui l’idea di uno scenario dotato di una certa neutralità nel dibattito e nell’arena decisionale, anche se di fatto si tratta di una neutralità presunta perché in realtà – negli Stati Uniti e più di recente in altre realtà culturali – emerge il ruolo privilegiato di lobbies e interessi specifici di particolare incidenza; quello che differisce da altri approcci culturali a noi più congeniali è il profilo esplicito e dichiarato di questi attori che non operano “sotto traccia” per esercitare la loro influenza sul quadro decisionale.
La cornice generale di riferimento entro cui si colloca il “fenomeno Urban Center” si lega alla mutazione della civitas nella contemporaneità; al riguardo, la letteratura e i riferimenti nelle Scienze Sociali sono ricchi e articolati, ma non è questa la sede per restituirne una ricognizione sufficientemente ampia. Particolarmente cogenti e significative in rapporto a queste riflessioni sono le intriganti suggestioni di Zygmunt Bauman sulla questione della liquidità e di Alain Touraine sulla crisi, o – più drammaticamente – la “fine del sociale”, almeno secondo i modelli che le comunità moderne avevano consolidato fino a ieri. C’è un’impalpabilità della dimensione sociale contemporanea che è molto complessa e iper-frammentata, come molecolari sono quelli che in gergo anglosassone vengono denominati stakeholders, ovvero portatori di interesse. Allo stesso tempo è emersa una diffusa crisi di credibilità delle rappresentanze istituzionali, dai livelli centrali alla dimensione locale, e una contemporanea crescita esponenziale di istanze di democrazia partecipativa.
Che cosa sta accadendo in sostanza? Potremmo parlare di un quadro in mutazione, orientato verso l’ibridazione: in paesi di cultura giuridica ad “Atto amministrativo” come la Francia o l’Italia, dopo il conclamato passaggio da una logica autoritativa ad una logica di tipo negozial-consensuale, abbiamo cominciato a ibridare, a introdurre elementi d’innovazione legati all’approccio “Community Led Development”, quello proprio dei paesi “Common law”. Le tendenze nella stagione attuale sono dicotomiche: da una parte alcune scuole di pensiero (Cronin 1995; Bookchin 2001; Benedikter 2008; Michelotto 2008; Zaquini 2015) ritengono che l’iper-frammentazione della domanda di cambiamento indotta da soggetti portatori di interessi particolari possa in qualche modo sfociare anche in situazioni che tenderebbero all’amplificazione delle manifestazioni di democrazia diretta; sul fronte opposto abbiamo invece chi sottolinea come stia diventando proibitivo governare le spinte disordinate e caotiche generate dalla polverizzazione della domanda e come sia dunque necessario ritornare a logiche un po’ più dirigiste, con più “government” e meno “governance” (Cortese et alii 2005; Bin 2011).
Il dilemma tra i tipi di democrazia è una “vexata quaestio” che riemerge costantemente in tutta la letteratura storica, da quella antica alla più recente; non sarà dunque inutile fare qualche riferimento per rendersi conto di come alcune questioni e riflessioni sul tema siano tuttora attualissime.
Jean Jacques Rousseau amava ironizzare sui livelli di democrazia degli inglesi:
“…il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento. Appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente…”
un’affermazione amara e drammaticamente attuale, che dovrebbe far riflettere anche su quanto accade nel presente.
La Atene di Pericle è sempre stata considerata il modello di democrazia diretta per antonomasia, tuttavia Platone e gli storici del tempo raccontano come Socrate sostenesse l’assoluta inopportunità che i comuni cittadini si pronunciassero su progetti concreti come ad esempio opere pubbliche e private (edifici, navi, etc.) mentre invece tutti i cittadini – dai più nobili ai più umili – dovessero essere assolutamente legittimati a esprimere pareri su questioni di Stato e scelte politiche di carattere generale.
Il tema del coinvolgimento e dell’impegno della componente civica nel dibattito ha assunto un ruolo fondamentale . Giovanni Sartori afferma che “governarsi da sé vuol dire passar la vita governando” (Sartori 1993), un monito esplicito nei confronti delle posizioni che tendono a dare troppo spazio a modelli di democrazia diretta “tout court” con il rischio di cambiare identità. Lo conferma Norberto Bobbio quando sottolinea come “….l’individuo chiamato a partecipare dalla mattina alla sera per esercitare i suoi doveri di cittadino sarebbe non l’uomo totale ma il cittadino totale….. e il cittadino totale non è, a ben guardare, che l’altra faccia, non meno minacciosa, dello stato totale, con il quale ha in comune la completa eliminazione della sfera privata nella sfera pubblica” (Bobbio 1984).
In definitiva, molti “maitre a penser” delle Scienze Politiche e Sociali convergono sulla constatazione che il dilemma tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta è un falso problema, nel senso che oscillare all’interno di questo pendolo non è fare una scelta di campo ma è invece trovare le occasioni che di volta in volta possono e devono integrare i due approcci, declinando in modo virtuoso i momenti di partecipazione. Quindi, parlare di “democrazia partecipativa” in modo astratto non ha un grandissimo significato, mentre appare invece più corretto insistere su scenari a geometria variabile, nei quali si sviluppano momenti partecipativi che di volta in volta vengono veicolati su profili interpretativi specifici. Diviene, dunque, sostantiva la “cabina di regia”, la capacità di mediazione e facilitazione del dialogo tra gli attori e di gestione del processo partecipativo.
Le riflessioni e le valutazioni sul tema dei livelli di partecipazione si sono sviluppate da più di cinquant’anni mettendo a fuoco il passaggio progressivo da un approccio di tipo gerarchico a una visione interpretativa più flessibile, a geometria variabile. Il primo era fondato sul contributo “storico” di Sherry R. Arnstein, di fine anni ’60, nel quale in sostanza attraverso otto livelli si metteva in evidenza come si potesse passare da una condizione che segnalava l’assenza o la estrema debolezza di una condizione effettuale democrazia partecipativa a una progressiva appropriazione di ruoli da parte della civitas, fino ad arrivare, nel livello più alto, a delegare pressoché integralmente il potere decisionale ai cittadini (Arnstein 1969). Da segnalare come recenti studi (Prieto Martin 2010) abbiano messo in rapporto la scala della partecipazione della Arnstein con il modello gerarchico proposto qualche anno fa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, arrivando a dimostrare che, di fatto, quest’ultimo si limiterebbe a una partecipazione sostanzialmente di facciata.
Abbracciando una logica partecipativa di tipo flessibile, appare più convincente la vision proposta dalla “ruota della partecipazione” (Davidson 1998). Il milieu dell’empowerment è stato in origine molto utilizzato nel mondo anglosassone, con una filosofia di fondo caratterizzata dalla tendenza all’attribuzione di poteri decisionali effettuali alla cittadinanza. In tal senso, la “ruota” delinea uno scenario ove non esiste a priori un livello superiore o inferiore, non c’è una scala gerarchica, non si sale dal basso verso l’alto, ma di volta in volta si scelgono momenti partecipativi che sono più focalizzati all’informazione o alla consultazione, fino ad arrivare a un autentico “empowerment”. È la condizione specifica di luogo e di tempo che definirà la scelta del profilo partecipativo più adatto. Questo tipo di approccio, depurato da contenuti retorici, dovrebbe condurre di fatto a diverse intensità di relazione tra soggetti coinvolti nei processi partecipativi, passando da logiche con flussi unidirezionali a flussi pluridirezionali; le forme di relazione producono in tal modo effetti e ricadute virtuose su logiche e scelte meta-progettuali fino a costituire una rete dove i pesi tra attori privilegiati e recessivi sono più equilibrati e si consolida uno scambio molto più fitto e denso.
2. Origine e attività degli Urban Center. Il modello USA
Gli Urban Center moderni sono nati negli Stati Uniti e si può dire che siano radicati alla concettualizzazione della democrazia americana. Tocqueville già nella prima metà dell’Ottocento durante i suoi viaggi negli Stati Uniti, nel suo famoso volume “De la dèmocratie en Amèrique”, metteva a fuoco con chiarezza come la forza della società americana fosse fondata sulla capacità di mettere in relazione, attraverso l’associazionismo, i gruppi di cittadini e gli eterogenei portatori di interessi che potevano rappresentare anche vere e proprie posizioni corporative, ma che tuttavia erano in grado di riavvicinare il singolo al potere centrale.
In definitiva, dunque, le più antiche strutture operanti negli USA assimilabili agli Urban Center contemporanei sono nate non solo da lobbies ma soprattutto da gruppi – diremmo oggi – di “cittadinanza attiva”, di forte impegno sociale per il benessere delle comunità e per il futuro della qualità di vita delle città.
Riferendosi agli antichi modelli di associazionismo citati da Toqueville, alcune prestigiose strutture americane hanno un radicamento consolidato nella storia della civitas locale.
Le filiere di stili e forme interpretative di un Urban Center nel mondo anglosassone e negli Stati Uniti in particolare, appartengono al milieu di cultura del diritto “Common law” e sono accomunate da un approccio nel quale il motore dell’iniziativa di creazione e gestione della struttura non s’identifica nella mano pubblica; come mostra la storia delle esperienze più significative, gli Urban Center USA si costituiscono sotto forma di Non Profit Organization (NPO), di norma ispirati e gestiti da privati grazie a finanziamenti di fondazioni, società di scopo, gruppi economici, associazioni professionali, soggetti filantropici, comitati e singoli cittadini con forme di fund-raising anche diffuso. Un modello, quello USA, che si è sviluppato attraverso lo strumento della NPO per i particolari benefici di natura fiscale che la legislazione federale e dei singoli Stati consentono.
Si è partiti dall’esigenza di sviluppare una serie di attività di base legate a logiche di tipo documentale sulla storia della città, con una comunicazione ed esposizione intelligente, una sorta di “museo della città”, un “big data” delle vicende antiche e recenti della città, nonché uno spazio di presentazione della progettualità nella città e un luogo di confronto tra gli attori. Attori variamente rappresentati, dalle istituzioni pubbliche locali ai soggetti forti, quelli che con acronimo anglosassone vengono definiti “FIRE” (Finance, Insurance, Real Estate), fino ad arrivare a specifici portatori d’interesse e ai soggetti più deboli, i cittadini organizzati in comitati o piccoli gruppi.
In tal modo gli Urban Center americani per primi sono divenuti luoghi elettivi e storicamente consolidati per un confronto dialettico tra gli attori della scena urbana con una “discussione aperta” su temi caldi e questioni cogenti della vita delle comunità e, in definitiva, sulla definizione delle linee guida delle politiche di sviluppo della città in un contesto che tende ad autodefinirsi una “arena neutrale”. Ormai consolidate in diversi decenni di storia, le declinazioni di Urban Center negli USA si presentano ricche e articolate per filosofie, mission, obiettivi specifici, attività, e tuttavia accomunate da una sorprendente simbiosi di passione civile e pragmatismo.
La Municipal Art Society (MAS) è una NPO le cui origini risalgono al lontano 1893 per iniziativa di un gruppo di privati il cui obiettivo di fondo era promuovere idee e azioni per migliorare cifra culturale, qualità dello spazio fisico e vivibilità di New York City. L’attività dell’associazione ha nel tempo affinato obiettivi e attività dotandosi di un’organizzazione sempre più strutturata per difendere la qualità di town planning, urban design e architettura contemporanea, curando la conservazione del patrimonio storico e la qualità dello spazio pubblico. In seno alle strutture del MAS dal 1980 è attivo il Planning Center, creato per sostenere la mission originale: promozione e sostegno del fare urbanistica con le comunità a basso reddito della città secondo uno “stile virtuoso”, attraverso attività di advocacy, assemblee pubbliche, programmi di basic education e ricerca.
Il Pratt Institute Center for Community and Environmental Development (PICCED) di New York è il primo Urban Center nato da una iniziativa universitaria, nella fattispecie il Pratt Institute, il più importante ateneo di NY Brooklyn; è riconosciuto come un insostituibile punto di riferimento per la cultura della partecipazione in urbanistica, in specie quella che ha fatto dell’empowerment il tratto distintivo della sua azione a supporto delle comunità locali. Tra i padri fondatori dell’iniziativa rilevano illuminati pionieri come Ronald Shiffman e George Raymond, protagonisti del processo di maturazione dell’advocacy planning, i cui principi fondativi si devono al loro maestro Paul Davidoff; l’asse portante delle “mission” del PICCED, pur nell’arricchimento delle attività nel tempo, resta incardinato su una declinazione del fare urbanistica con finalità legate a una maggiore giustizia sociale, attraverso il coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali e l’assistenza tecnico-disciplinare ai soggetti più deboli per la difesa dell’urbanità dei neighbourhoods e il miglioramento delle condizioni di vita nella città.
La San Francisco Planning and Urban Research Association (SPUR) è una delle strutture storiche degli Stati Uniti, originariamente un’associazione dei primi anni del XX secolo (1910) animata da un gruppo di giovani attivisti civici preoccupati di limitare gli eccessi speculativi dopo il devastante “big-one” del 1906. SPUR nei suoi tratti attuali è nata nel 1958 ad opera di un ristretto manipolo di cittadini guidati da un’attivista – Dorothy Erskine – il cui obiettivo primario era la ricerca di uno “sviluppo sostenibile” ante-litteram del territorio della baia di San Francisco, rispettoso dell’identità culturale e ambientale originaria dei luoghi.
SPUR si configura come NPO, con il profilo dominante di un think tank, un serbatoio di creatività e idee al servizio dell’intera collettività della Bay Area per delineare gli scenari di trasformazione della città, mettendo in coerenza le linee guida delle politiche delle Agenzie governative con le istanze, spesso configgenti, espresse dalla business community e dai portatori d’interesse diffuso. Finanziatori e animatori dell’Urban Center rappresentano fedelmente le ricche sfaccettature della comunità urbana: si va dalle associazioni di categoria al mondo dell’università, dalle fondazioni di scopo ai developers immobiliari, da esperti di settore fino agli stakeholders rappresentativi degli interessi specifici dei gruppi etnici svantaggiati, uno spaccato significativo del capitale umano della comunità metropolitana di San Francisco.
Le direttrici delle campagne dell’Urban Center SPUR non nascono, in generale, da posizioni precostituite, pilotate dai “soggetti dominanti”, ma dal confronto tra le diverse posizioni in merito a problematiche prioritarie individuate dal Direttivo secondo protocolli precisi. L’atout che contraddistingue la specificità della struttura è rappresentata da autorevolezza e validità dell’attività di ricerca, esplicitata attraverso studi e rapporti in grado di incidere sul quadro politico-decisionale in virtù tanto dello spessore scientifico, quanto della dichiarata “equidistanza” e neutralità dagli interessi di parte.
La costruzione e il rafforzamento di un’immagine coesa di comunità urbana attraverso la valorizzazione delle radici culturali più profonde della città è la missione principale della Chicago Architecture Foundation (CAF), Urban Center che tende a distinguersi dai precedenti per lo stile di coinvolgimento degli attori nei processi di “apprendimento” delle politiche di trasformazione dello spazio urbano e delle relazioni di senso tra manufatti architettonici e trama insediativa.
Facendo leva sulla stratificazione culturale di Chicago, metropoli storicamente intrigante e attrattiva per qualità dell’architettura e del paesaggio urbano, si è dato vita a un Urban Center il cui fisiologico obiettivo primario s’incardina sulla diffusione e valorizzazione della cultura architettonica come veicolo distintivo della città attraverso un panel articolato di attività quali formazione didascalica (teoretica e “on site”), forum e workshops con intenti maieutici, eventi espositivi, dibattiti e valutazioni critiche di progetti urbani e d’architettura.
La CAF, tuttavia, va ben oltre la mera dimensione della “Casa dell’Architettura”, affidandosi alle capacità del Board of Directors di contemperare le politiche di fund raising e management gestionale della Fondazione, con il respiro strategico di un programma di attività protese a rafforzare il tessuto socio-culturale della città allo scopo di renderlo sempre più orgoglioso di appartenere ad una comunità urbana che intende tutelare e riaffermare la “cifra identitaria” del suo genius loci.
3. Guardando all’Europa
Facendo leva su diversi modelli culturali e stili di governo del territorio rispetto al milieu USA, in Italia il fenomeno Urban Center (o “Casa della città”) si è sviluppato con un certo ritardo ispirandosi alle esperienze di punta in atto in Europa.
Nel contesto dei Paesi ad “Atto amministrativo” o “Civil law”, come Francia e la stessa Italia, il soggetto ispiratore di un Urban Center coincide, in generale, con le istituzioni di governo locale della città, in esclusiva o in partenariato con altri enti e soggetti le cui missioni perseguono l’interesse pubblico o l’interesse generale. Nei Paesi europei “Civil law” gli Urban Center sono di norma costituiti direttamente dall’amministrazione comunale e, nella maggioranza dei casi, sorretti quasi interamente da finanziamenti pubblici, o da formule in Partenariato Pubblico-Privato con il pilotaggio del primo.
In Europa, il fenomeno si è cominciato a sviluppare attraverso strutture di tipo temporaneo legate a piani, programmi e progetti di trasformazione specifici definiti nello spazio e nel tempo. Un celebre esempio che tutti ricordano è stata la pionieristica stereometria rossa dell’Infobox di Berlino, un padiglione temporaneo (1995-2000) localizzato nella Leipziger Platz per fornire informazioni sul Master Plan della Potsdamer Platz e di tutta l’area centrale di Berlino nella stagione dei grandi programmi di trasformazione della città dopo la riunificazione tedesca.
Molto significative in Europa le esperienze del “Pavillon de l’Arsenal” a Parigi e del Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona.
La tipica cultura di governo transalpina, originariamente incardinata a un modello dirigista anche se ibridato significativamente nel tempo, contraddistingue il carattere del Pavillon de l’Arsenal di Parigi, nato nel 1988 per volontà dall’allora Sindaco di Parigi, poi Presidente della Repubblica, François Chirac, recuperando un edificio del XIX secolo originariamente adibito a museo privato e, in seguito, a funzioni commerciali.
L’obiettivo principe del Centro è di tipo eminentemente espositivo-documentale, presentando l’immagine in divenire della città e trasmettendo alla cittadinanza in modo eminentemente didascalico un quadro informativo finalizzato a comprendere “l’evoluzione di Parigi e dei suoi progetti” e ad accrescere la consapevolezza del ruolo che la civitas può assumere collocandosi “nel cuore del processo di creazione architettonica e urbana”.
Per quanto sia palpabile la retorica auto celebrativa del disegno di trasformazione della città posto in atto dall’amministrazione parigina, il visitatore dal palato più fine può trovare gratificazione nel ricco e qualificato parterre di attività culturali animate da ospiti di prestigio (conferenze, seminari,visite guidate..) di cui resta traccia nel sito web, insieme a servizi e strutture di divulgazione di prim’ordine (biblioteca, fototeca, multimedia..). Attraverso la rassegna delle scelte urbanistiche, dei progetti urbani, della cifra architettonica e del disegno politico e socioeconomico che le sostiene, si può rileggere la storia recente e il ventaglio di soluzioni individuate per rispondere ai problemi quotidiani della città e dei suoi abitanti. In generale, se da un lato il Centro si caratterizza per uno spazio espositivo complesso fatto per comunicare in modo unidirezionale le scelte di trasformazione che i decisori hanno individuato per la città, dall’altro è pressoché assente il tentativo di utilizzare la struttura come luogo per l’adozione di strumenti partecipativi ai fini di un autentico “empowerment” per la costruzione di politiche urbane condivise.
Il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona (CCCB) è una struttura ideata e sostenuta da un processo di collaborazione tra pubbliche amministrazioni catalane, segnatamente la Diputacion (Provincia) e l’Ayuntamiento (Comune) di Barcellona. Il progetto, messo a punto fin dagli anni ottanta, si è concretizzato con l’inaugurazione del Centro nel 1994, situato in pieno centro storico nella sede dell’ex convento “Casa della Caritat”, ristrutturato da una griffe progettuale di prestigio (Viaplana & Pinon). L’articolazione delle attività del CCCB è incardinata su un fulcro tematico fortemente caratterizzato: informazione e divulgazione della cultura del “fare città” (storicizzata e contemporanea), ricerca scientifica, mostre ed esposizioni.
Fin dalle origini il CCCB si è proposto di rappresentare un “centro cultural che crea habito”, una struttura che fa dell’approccio multidisciplinare una chiave decisiva per rappresentare un punto di riferimento nel panorama di offerta culturale della metropoli catalana, coinvolgendo istituzioni, cittadinanza e interessi economici in un progetto globale capace di creare valori di coesione e rinnovamento sociale. In altre parole, le sofisticate attività espositive, formative, di ricerca e di servizi innovativi dal punto di vista della comunicazione interattiva sono coerenti con la corretta declinazione delle mission prioritarie del Centro, costituire un polo di servizio permanente della città aperto alle diverse “forme epifaniche” della comunità urbana, incidere sulla vita della popolazione locale (non solo culturalmente), dar corpo alle istanze emergenti di nuova identificazione collettiva.
Le strategie seguite per la definizione della programmazione delle attività del CCCB fanno riferimento al protagonismo della mano pubblica, non solo per gestione e finanziamento (sostenuto in prevalenza da Diputacion e Ayuntamiento di Barcellona), ma anche per la collaborazione con le istituzioni universitarie della città (come l’Universitat Politècnica de Catalunya o l’Universitat International Menéndez Pelayo) che produce un’offerta formativa qualificata ma diretta a un uditorio generalista. In questo senso, lo spazio urbano e metropolitano nelle diverse sfaccettature (fisico-geografiche, ambientali, sociali, economiche, architettoniche, artistiche,..) rappresenta un tema portante del panel degli interessi culturali del Centro.
4. Il fenomeno UC in Italia: verso la generazione 3.0
Dalla seconda metà degli anni novanta, sulla scia di quanto stava accadendo all’estero, principalmente nei paesi europei a noi vicini per architettura istituzionale e cultura di governo del territorio, anche in Italia si è concretizzata, prima timidamente e in seguito con una netta accelerazione, l’attivazione di strutture quali “Urban Center” o “Casa della Città”, destinate a ospitare spazi dedicati a illustrare idee o progetti in via di attuazione, talvolta perfino strumenti urbanistici come piani regolatori generali comunali, programmi o progetti urbani complessi.
A ben vedere, era logico che la giovane storia di queste strutture nel nostro Paese fosse contrassegnata, in generale, da un cammino aritmico, con “picchi” di fervore creativo e febbrile operatività, alternati a “valli” di momenti di vuoto o incertezza legati ai cicli di governo delle città. In effetti, le strutture incardinate sulle istituzioni del governo locale spesso hanno dovuto attraversare criticità da “mortalità infantile”, giacché inizialmente erano molto legate ai mandati dei sindaci e al colore politico delle amministrazioni, oppure erano pensate su un ciclo temporale preciso, per esempio commisurato all’elaborazione di strumenti specifici come i Piani Strategici. Come nel caso della città di Pesaro che si è dotata di un Urban Center “a termine”, concepito unicamente per l’accompagnamento alla redazione del Piano Strategico.
Volendo tracciare in modo molto schematico le linee evolutive del “fenomeno Urban Center” in Italia, si può distinguere una fase iniziale (anni novanta) contrassegnata dal “fisiologico primato” delle istituzioni di governo locale con strutture eminentemente orientate a funzioni di tipo informativo-comunicativo e di auto-promozione dell’azione pubblica, nella quale le forme di coinvolgimento dei soggetti d’interesse diffuso risultavano di tipo recettivo ma non interattivo. I flussi comunicativi erano sostanzialmente unidirezionali, dai soggetti ispiratori dell’Urban Center – la pubblica amministrazione locale – verso gli attori “altri”.
C’è stata poi una seconda fase, nella prima parte degli anni 2000, con l’attivazione di strutture più stabili che hanno avuto la capacità di superare le logiche contingenti dei mandati politici locali promuovendo la continuità e i flussi informativo-comunicativi di tipo bidirezionale; lo scenario interattivo è coinciso con il perseguimento di logiche di tipo partenariale, seguendo spunti e modelli avanzati, provenienti dalla cultura anglosassone. Il Partenariato Pubblico-Privato si è introdotto e sviluppato così fisiologicamente nella dimensione di costruzione di un Urban Center, tanto a livello di sostegno finanziario, quanto nel coinvolgimento e protagonismo di un parterre allargato di portatori d’interesse attivi sulla scena urbana.
Da qualche anno, infine, si va delineando una nuova stagione in progress che individua nell’Urban Center 3.0 un luogo stabile e simbolico di aggregazione di soggetti eterogenei e diffusi, con nuovi impulsi verso l’esercizio dei principi di democrazia partecipativa e di “messa in rete” virtuosa della costellazione di attori attivi sul territorio, ai fini di un autentico empowerment e della costruzione di una “vision urbana condivisa”. Le strutture più recenti, facendo tesoro dei modelli USA e dei casi di successo in Europa, stanno costruendo una “nuova generazione” di Centri con la tendenza a modificare la composizione del panel dei soggetti ispiratori e finanziatori attraverso forme anche complesse di Partenariato Pubblico Privato e di coinvolgimento attivo dei soggetti Non-Profit.
5. Urban Center: quali scenari prospettici?
Va sottolineato che lo schema dicotomico, proposto nel testo (“Common law” / “Atto amministrativo”) allo scopo di decifrare il “dna culturale” e gli stili interpretativi del “fenomeno Urban Center”, è un espediente utile a decodificare un panorama ove in realtà, a partire dai modelli ideali originali del milieu giuridico-amministrativo in cui operano i protagonisti delle trasformazioni insediative, si sono prodotte in modo fortemente dinamico una serie di intriganti ibridazioni, coniugando di volta in volta le specificità culturali locali con gli stili di governo delle collettività urbane.
Si può affermare che dal 2005 in avanti è rinvenibile concretamente la maturazione delle forme di contaminazione e ibridazione virtuosa dei “ceppi originali”. Sulla scia del decollo delle strutture nelle grandi città capoluogo come nei casi virtuosi di Bologna e Torino, unitamente a Milano, Genova, Palermo, ultimamente anche a Roma, sono state attivate più recentemente – nonostante la pesante crisi economica del Paese – nuovi Urban Center nel tessuto vitale delle città medie, Bergamo, Brescia, Parma, Vicenza, Grosseto (per citarne solo alcune) e anche di centri a massa critica più modesta come Rovereto o Pontedera. L’imperativo del coinvolgimento nelle politiche di trasformazione della città di una platea sempre più ampia e articolata di attori rappresenta in modo crescente una potente turbina di attivazione di iniziative per la costituzione dei Centri, non solo da parte delle amministrazioni locali ma anche e in modo crescente su impulso di soggetti “terzi” (ordini professionali, università, organizzazioni e associazioni non-profit, etc.). Nel 2007 in occasione di un workshop tematico a Torino è nata la proposta di costituire una rete nazionale di coordinamento UC, idea che ha ricevuto unanimi consensi ma che non è stata ancora concretamente attuata. Va segnalato infine che si è iniziato a studiare in modo più sistematico il “fenomeno UC” in Italia (con riferimenti anche a esperienze internazionali) costituendo un “Osservatorio di ricerca UC” (urban-center.org) a cura di un team universitario coordinato da chi scrive.
Il tessuto più innovativo degli Urban Center in Italia appartiene sempre meno a logiche di tipo gerarchico e si sta evolvendo verso approcci a “geometria variabile”; in alcuni casi è fisiologico che l’Urban Center sia un megafono, un amplificatore informativo-comunicativo unidirezionale, in altre situazioni è opportuno che sia anche un recettore, un’antenna che intesse flussi bidirezionali verso i molteplici stakeholders della città. In condizioni specifiche di tempo e luogo, infine, l’Urban Center può costituire una vera e propria arena di discussione e confronto ove emergono esplicitamente i conflitti e i possibili scenari di ricomposizione virtuosa degli interessi in gioco.
Ritornando allo scenario in evoluzione dell’UC 3.0, le tendenze più recenti indicano che, grazie alle nuove tecnologie, queste strutture divengono sempre più pervasive sul territorio, i flussi intessono reti relazionali complesse e dense, gli attori civici si recano sempre più raramente presso le sedi fisiche degli Urban Center per un’assemblea pubblica o su tematiche specifiche. In effetti sono le strutture stesse che si muovono sul territorio, vanno a portare “in situ” il loro contributo per risolvere situazioni di conflitto, per informare su quali siano le condizioni al contorno per una meta-progettualità condivisa. Attraverso la commistione tra le vecchie logiche comunicative, che appartengono a fasce demografiche ben precise, e i nuovi vettori dei social network e del mondo del web, che permettono d’intercettare le fasce d’età più giovani, si può parlare di una sorta di nuova generazione di Urban Center che possono rappresentare un “hub” ove si cerca di mettere insieme realtà civiche e fasce d’età differenti che spesso non s’incrociano o si parlano in modo molto episodico.
In definitiva, con le limitazioni su cui si è argomentato, queste strutture possono offrire un contributo significativo all’innovazione dei processi di democrazia partecipativa in ambito urbano e territoriale. L’Urban Center è potenzialmente un nodo ove confluiscono portali culturali, identità, aspirazioni, desideri, attitudini, visioni delle frammentate comunità contemporanee; un luogo dove si cerca di mitigare i conflitti, di instaurare un dialogo per valorizzare, come dice Jane Jacobs, il “capitale sociale” e dunque per costruire una comunità composita ma in qualche modo inclusiva. L’Urban Center, come precipitato di scenari di democrazia partecipativa e deliberativa, va in definitiva interpretato assecondando le culture emergenti di governo della città attraverso scelte di campo sulle logiche a geometria variabile.
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