Sullo Zeppelin

Libreria Feltrinelli Firenze – lunedì 18 gennaio 2010, h.18: Paolo Cocchi, Bruno Monardo e Giacomo Pirazzoli discutono con gli autori: “Zeppelin – progetto per un Urban Center nell’area metropolitana fiorentina” di Enrico Falqui, Anna Bartolaccio, Paola Pavoni – Alfani Editore, Firenze 2009.

Sintesi dell’intervento del prof.Giacomo Pirazzoli – Università di Firenze

Da qualche anno, pur avendo titolarità in Composizione Architettonica ed Urbana e dopo aver affidato ad un libro che ha anche edizione web (www.03d.it) i risultati avuti con gli studenti del primo anno – allargati a due occasioni di internazionalizzazione vera, a Montpellier e Dortmund – ho scelto di tenere due corsi complementari, “Allestimento e museografia” e “Progettazione Architettonica per il Recupero Urbano”, entrambi di quinto anno; si tratta di due insegnamenti apparentemente distanti, che ritengo interessantissimi l’uno perchè a Firenze ed in Toscana si trovano alcuni tra i più importanti musei del mondo, l’altro perchè l’Italia rimane luogo assai sgangherato di conflitti ineffettuali rispetto alle trasformazioni urbane e del paesaggio, per cui ogni paragone su estero assume valore paradigmatico. In realtà – ed è il motivo per cui ho accettato di essere qui oggi a discutere di questo libro – considero l’Urban Center (per la cui opportuna definizione rimando al testo di cui stiamo parlando, ovviamente, piuttosto che all’impareggiabile “sarchiapone” di Walter Chiari) il punto di incontro tra “museo” (o meglio “luogo espositivo”) ed “urban renewal” in quanto processo. Come dire, risultato dell’alchemica fusione tra un luogo tradizionalmente “morto” come il museo (o almeno come lo intendevano i “passatisti”, tanto che Marinetti i musei non li amava davvero) ed un corpo vivo in perenne trasformazione come la città delle donne e degli uomini.

Naturalmente il nostro essere qui ed ora a discutere di queste cose in una civilissima e prestigiosa libreria (ma non in un Urban Center) è frutto di quella italica sgangheratezza che sottolineavo poc’anzi: in effetti quando vivevo a Parigi – dove dal 1988 esiste il Pavillion de l’Arsenal con funzione di urban center – ero solito, ogni tre o quattro settimane o anche più spesso in caso di eventi speciali, andare appunto al Pavillion per capire quel che stava cambiando, per vedere le trasformazioni in corso. Ovvero: che qui a Firenze siamo a parlare dell’Urban Center è merito di questo libro e dei suoi autori – ad eccezione dei coffee-table books, un libro è sempre un atto di generosità da parte di colui che lo scrive – ma che siamo nel 2010 e a Firenze ancora non si sia stati capaci di nulla di più concreto che di parlarne, è un fatto.

Come è un fatto “presunto” che la costruzione del “nuovo” Palazzo di Giustizia fiorentino – imbarazzante opera di architettura postuma e di modernariato, che arriva a compimento dopo oltre venti anni dagli iniziali schizzi di Leonardo Ricci – forse non si sarebbe fatto se ci fosse stato un Urban Center per farne condivisa e pubblica riflessione? Come, altrettanto presumibilmente, non ci sarebbe stata – grazie alle best practices di stampo UE che gli Urban Center di solito tendono a veicolare – la controversa vicenda dell’area di Castello, divenuta ribalta non così gradita per la città, rispetto al panorama pur penoso delle trasformazioni urbane nazionali? Col sentimento di oggi, possiamo dire che questa seconda vicenda – consumata appunto in assenza di Urban center – ha però contribuito all’emergere della nuova amministrazione comunale, più dinamica ed aperta al cambiamento?

Torniamo al libro, che propongo di leggere a rovescio, a partire cioè dalla schedatura (un centinaio di pagine, dove sono riportati anche dati assai interessanti quali i budget) dedicata ad alcuni urban center a livello internazionale e nazionale; senza dubbio, integrata con il sito www.urban-center.org diretto da Bruno Monardo – che è qui a fianco a me, invitato per riflettere a sua volta – la base della ricerca è certamente non-provinciale, ma consistente e di larghe vedute; lo stesso vale per le considerazioni di metodo – ben improntate a criteri di sostenibilità – che precedono la schedatura, come per le pagine che questa seguono, ove è nel merito spiegata la proposta dell’Urban center fiorentino. Comunque, pur di non essere perfetto, il volume – piuttosto che sottolineare le esperienze positive degli urban activist di alcune aree metropolitane – assolve un po’ genericamente il vecchio “star system” degli architetti (Gehry, Hadid, Calatrava nella fattispecie), forse per momentanea amnesia rispetto alla quantità di operazioni in-sostenibili che, forti del globalmarketing, le archi-star hanno avallato in tempi di Transnational Capitalist Class (Sklair 2001).

Per me, resto convinto che l’Urban Center – magari ancora nomade, realizzato in modalità temporanea quasi “consolidamento” del barcamp dedicato alla città che il Comune ha voluto a Firenze giusto pochi giorni fa – sia uno degli strumenti necessari per cominciare a riavvicinare in modo inclusivo ai luoghi dell’abitare contemporaneo anche la gente del “comunque no”; a più forte ragione ed “a sistema”, almeno a livello regionale, se vogliamo dar conto di una certa idea condivisa di “territorio”. Perchè, domando a mia volta agli autori, la endemica ma corrosiva lentezza che – in questo dopoguerra geometrile – ha pesantemente segnato il paesaggio italiano, non può forse diventare consapevolezza diffusa ed essere messa a base di un rinnovato progetto per quel “social network” fisico, noto con il nome di “città”?

Giacomo Pirazzoli

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