Ringraziando gli organizzatori della presentazione del volume “Zeppelin. Progetto per un Urban Center nell’area metropolitana fiorentina” per l’invito a partecipare al dibattito, devo dire che intriganti e articolati sono gli spunti di riflessione che emergono dalla lettura del lavoro di A.U.S. Lab, il Laboratorio di Architettura e Urbanistica Sostenibile coordinato dal prof. Enrico Falqui.
Nel volume non viene solo delineato un quadro ampio e comprensivo sulle diverse sfaccettature del fenomeno UC, origini, missioni, stili, dinamiche, contesti culturali, ai fini di proporre uno scenario per la creazione di una nuova struttura per la Comunità urbana fiorentina (poi spiegherò perché uso questa definizione invece di parlare semplicemente della città di Firenze).
Sarebbe stato ripercorrere un sentiero già battuto confinare il ragionamento alla mera “fattispecie tipologico-tassonomica” delle Case della Città e alle motivazioni che possono far identificare nella ex centrale termica della cittadella industriale dismessa della FIAT a Novoli una nuova “Torre civica” di geddesiana memoria.
In realtà la questione degli Urban Center è l’innesco e punto d’arrivo insieme per una riflessione di ben più ampio respiro che s’interroga e investiga le ragioni che hanno condotto a quelli che nel lavoro degli Autori vengono definiti “i nuovi stereotipi della città contemporanea” ed è in questa parte del lavoro che volando alto con numerosi riferimenti trans-disciplinari (come il concetto ormai allargato di “governo del territorio” sembra imporre al di là dei vincoli giuridico-normativi) si pongono le premesse per una – direi – traslazione degli assi di riferimento culturale con un approccio che un tempo si sarebbe potuto definire “organico” (termine ormai desueto e demodé tanto in urbanistica, quanto in architettura).
Ovviamente, non desidero privare i lettori del “piacere della scoperta” di acute argomentazioni corredate da colte citazioni che spaziano dalla poesia alla letteratura, dall’economia alla geografia dalle scienze politiche a quella ambientali, dall’ecologia alle scienze sociali, dall’architettura alla pianificazione urbanistica, mettendo in evidenza la profondità di pensiero cui i diversi autori (alcuni a me molto cari) sono approdati su questioni così vicine agli interessi di chi è chiamato e dunque farò cenno solo ad alcune suggestioni che ritengo cogenti rispetto al tema delle strutture pensate per favorire l’evoluzione della democrazia partecipativa e deliberativa per il governo del territorio.
1. Suggestioni e riflessioni
La prima riguarda il territorio insediativo che si trasforma nel passaggio ormai conclamato dalla città compatta alle nuove forme dell’urbano, la città diffusa, il periurbano, la frammentazione, la dispersione, lo sprawl. Si ritrovano le infinite suggestioni della letteratura con lo straordinario, seppur fin troppo cannibalizzato, Italo Calvino delle Città invisibili e delle Lezioni americane da cui il richiamo alla visione dialettica della realtà: da una parte il Lucrezio della leggerezza, di un universo discontinuo, ma padroneggiabile con la mente, la materia, il flusso, l’energia in Natura, dall’altra l’Ovidio di un universo che prolifera di forme concrete e definite, il continuo, il “mito”, l’ordine contro il Caos, l’arte di trasformare la città, parafrasando Camillo Sitte.
In fondo, a ben vedere, anche un geografo come Pierre George negli anni sessanta aveva saputo precorrere una visione, interpretare ciò che sarebbe accaduto con la mutazione del dna della città riconoscendo i nuovi caratteri dei processi di urbanizzazione: discontinuità fisica e aspazialità relazionale (cfr. anche le lucide diagnosi di Melvin Webber e Francoise Choay sulla metamorfosi del “dominio dell’urbano” – urban realm – e “forme e orizzonti del post-urbano”).
Altra intrigante suggestione è quella del concetto di luogo, un termine focale, oggetto di riflessione in molte discipline che s’intrecciano su città e territorio. Nel volume si fa riferimento a Rykwert e al suo interrogarsi criticamente sul senso della “seduzione del luogo”; il pensiero non può non correre al discusso pamphlet di Marc Augé che ormai quasi vent’anni fa ha avuto il merito di rilanciare la questione della definizione di luogo attraverso la sua negazione (l’ormai consumato concetto di “non-luogo”). Ma il “valore ontologico”, l’essenza, prima della seduzione di un luogo deriverebbe dalle caratteristiche “genetiche” secondo Augé (storia, identità, relazione).
Come fronteggiare dunque le discrasie della contemporaneità ? Come fare i conti con la dicotomia tra imperativo della crescita economica che però non corrisponde spesso a sviluppo, se si aderisce all’ermeneutica dello sviluppo basato sul “capitale cognitivo”?
Bisogna agire (prima tesi centrale del volume) sui livelli della conoscenza di: meccanismi economici, culturali e anche tecnologici della città; domanda di cambiamento indotta dai flussi migratori, aggiungerei della città inter-etnica (relazione virtuosa) e non soltanto multi-etnica (isolamento, emarginazione dei gruppi, produzione di ghetti); dei “giacimenti culturali” che impreziosiscono le città (d’arte).
Il concetto di conoscenza, insieme a quello di creatività, è un leit motif nel libro che si sviluppa a partire dalla dicotomia tra quella che Shon chiama “conoscenza forte” (dominio delle Scienze esatte) e “conoscenza debole” (arti, tecniche); al riguardo rilevano le riflessioni di Luigi Mazza che distingue tra “conoscenza”, ove oltre all’oggetto è contenuto anche lo studio del processo, e “sapere” che è il non meno nobile contenuto in sé stesso, che dovrebbe costituire oggetto specifico del mestiere dell’urbanista (i metodi, le tecniche, la capacità di delineare le regole per la trasformazione fisica della città, “la griglia”, i tessuti, l’impianto urbano).
Tutto ciò è molto legato alla concretizzazione dei “modelli di città” per attuare quei principi di sostenibilità sui quali tutti convergono con le dichiarazioni di principio, ma non nella concretezza dell’operare.
Alla declinazione virtuosa dei modelli di città sostenibile s’incardina la questione del riassetto amministrativo e fisico spaziale degli insediamenti, un concetto che citavo all’inizio, quello del passaggio da una “vision” di città come mero campanile a quella che in Francia la legge Chevenement sulle forme di coesione intercomunale ha distinto in Comunità Urbane, Comunità d’agglomerazione o Comunità di comuni secondo soglie di massa critica decrescenti.
Vi è poi un secondo fil rouge che si lega alla possibilità di inverare concretamente i principi della sostenibilità in campo urbano, quello della risorse offerte dalla così detta “città creativa” intesa non solo come precipitato e stratificazione di saperi di alto profilo, ma soprattutto come incubatore d’innovazione.
La teoria di Richard Florida sulla competitività e sul ranking delle città in base alla “creative class” e alle 3T (technology, tolerance, talent) ha avuto un grande successo, ma già diversi anni or sono mi è capitato di convenire con alcuni colleghi USA che gli indicatori individuati da Florida non bastano a descrivere fedelmente la” cifra poietica” e la qualità di una comunità urbana.
La prospettiva di “città creativa” come incubatore di distretti culturali attrattivi e interconnessi (cittadelle museali, centri espositivi, centri di ricerca, spazi di sensibilizzazione e formazione della civitas, sinergie con il mondo della scuola e dell’università) costituisce il nesso con la rivisitazione dell’identità e della ragion d’essere di un Urban Center. La mission di un UC sarebbe in qualche modo connessa al tema della “società e dell’economia della conoscenza” (ruolo formativo, quasi maieutico).
Tutto ciò sembrerebbe fisiologico, almeno in astratto, tuttavia gli autori convergono sulle posizioni già consolidate da altri studiosi riguardo alla corrispondenza tra la “mission fondativa“, il ruolo, gli stili di declinazione di un UC da un lato e il taglio culturale del government o della governance delle comunità urbane legate alle specificità dei territori (i casi di San Francisco, New York, Chicago, Bilbao, Berlino, Barcellona, Torino, Bologna e così via, stanno a sottolinearlo).
Da qui la questione che considero fondamentale: le forme di coinvolgimento della comunità civica, nelle sue diverse sfaccettature, ai fini nel processo decisionale, tema connesso al più ampio discorso sulle forme di democrazia (rappresentativa, partecipativa e deliberativa).
In una stagione nella quale si moltiplicano i segnali di crisi di credibilità delle istituzioni di governo locale e di crescita delle aspettative insoddisfatte della cittadinanza, la questione dell’innovazione di forme, procedure e soprattutto strumenti utili a rendere più trasparente e “tracciabile” il processo decisionale occupa un ruolo decisivo.
Pur nella conclamata riaffermazione (e per certi versi consolidamento) del protagonismo degli attori privilegiati (FIRE – finanza, assicurazioni, real estate) nella formazione del quadro decisionale, appare ineludibile ricomporre nel nostro Paese quel quadro di legittimità politica e onestà intellettuale che si possa esplicitare anche attraverso il coinvolgimento dei soggetti recessivi, non tanto per l’esercizio di un generico (e formale) diritto consultivo ex post su scelte in larga misura già maturate, quanto per una autentica partecipazione alla formazione delle linee guida delle politiche di trasformazione della città e del territorio.
D’altra parte, la realtà dei gruppi d’interesse particolare e diffuso è in rapida evoluzione e anche noi stiamo da tempo perfezionando quella cultura dell’associazionismo che Alexis de Toqueville osservava sorpreso già nell’America della prima metà del XIX secolo.
I gruppi di cittadini sono molto più stabili e organizzati, non sono più “mono issue” (monotematici e creati ad hoc), afflitti da mortalità precoce o dichiaratamente temporanei come in passato: oggi continuano a operare permanentemente sul territorio, affinando il loro grado di conoscenza nei tempi lunghi e migliorando continuamente il livello d’interazione, segnatamente attraverso le reti digitali.
Non dimentichiamo che in un certo senso la retorica di ciò che noi definiamo “governo del territorio” è partita da un assunto: interrompere la collusione tra sfera politica deviata, comitati d’affari e braccio armato della tecnica. Ma per raggiungere decisioni efficaci di governo del territorio bisogna sottoporre il processo decisionale a controllo, pur nel rispetto dei ruoli.
Un metodo partecipativo, dunque, da affinare nelle sue declinazioni applicative, distinguendo – nello scenario urbanistico – tra dimensione meramente “formale” e più concretamente “attiva”.
I territori della Regione Toscana, nella fattispecie, sono molto sensibili al tema, tanto è vero che oltre alla legge 1/2005 che garantisce la partecipazione attiva dei cittadini al processo decisionale sulle scelte di governo del territorio istituendo il “garante della comunicazione” (art. 19, 20), è stato approvato e attuato non molto tempo fa un provvedimento specifico sulla “partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali (LR 69/2007 che si ispira al debat public francese) con la nomina di una Autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione.
Emblematica per le sue origini e ancora estremamente attuale la tassonomia dei diversi livelli di partecipazione alla vita civica tracciata quarant’anni or sono da Sherry R. Arnstein. Emblematica perché nata in un Paese come gli USA ove il dibattito critico e lo sviluppo dei principi democratici affonda le radici in una tradizione culturale consolidata; attuale perché, a fronte delle retoriche della “governance”, la capacità di pilotaggio e ricomposizione virtuosa degli interessi da parte dei decisori viene spesso messa in crisi dall’asimmetria tra poteri forti e soggetti recessivi della scena urbana.
Usando la metafora di una scala, la Arnstein individua otto livelli diversi di coinvolgimento dei cittadini nel processo decisionale; l’approccio è riduzionista rispetto alla complessità delle situazioni, tuttavia l’articolazione è decisamente più raffinata della rozza divisione tra chi ha potere e tutti “gli altri”.
Al gradino più basso della scala si trovano due tipi di partecipazione impropri, o meglio, l’assenza di partecipazione: la manipolazione e la terapia. La prima è attuata da alcune organizzazioni governative e ha in realtà la finalità di controllare il consenso, cercando di convincere i cittadini ad accogliere decisioni già predeterminate. La seconda, definita terapeutica, è allo stesso tempo ingannevole e arrogante, perché in sostanza cerca di controllare le iniziative di protesta emergenti, con l’intenzione di incanalare il dissenso, “educando” i cittadini a comportamenti più integrati con il senso comune.
Nei livelli della fascia centrale, che potrebbe definirsi di partecipazione formale (tokenism), si trovano l’informazione e la consultazione, due forme legittime ma deboli di coinvolgimento. L’informazione è un buon primo passo, soprattutto se è plurale e accresce la conoscenza dei programmi di governo, dei diritti e delle possibilità di scelta. La consultazione è altrettanto utile, se autentica, ma non vi è alcuna garanzia né accordo che le indicazioni verranno seguite. Il gradino superiore, placation o gestione dei conflitti, è soltanto un livello più alto di pseudo-partecipazione che, come nei due casi precedenti, dipinge uno scenario nel quale il potere dei decisori “tradizionali” rimane sostanzialmente inalterato.
I livelli più alti di partecipazione nei quali il quadro decisionale diviene realmente “inclusivo” sono rispettivamente la partnership, la delega del potere (delegated power), e il controllo da parte dei cittadini (citizen control), che garantiscono un potere decisionale effettivo agli stakeholders civici.
Sarebbe interessante e forse sorprendente fare una valutazione sulla base di questi strumenti di quale livello di partecipazione sia stato raggiunto di volta in volta nelle politiche di governo delle trasformazioni delle nostre realtà locali.
2. Quale Urban Center? Definizioni e culture di governo
E dunque chiudo il cerchio di queste considerazioni ritornando alla questione del “valore ontologico” che vogliamo attribuire all’Urban Center che come si è detto comporta un’identità sostanzialmente polisemica.
Le molteplici definizioni sono legate alle matrici giuridiche e ai modelli di governo (ai due estremi cultura ad atto amministrativo o “common law”).
Ad esempio, definire gli Urban Center come “luoghi fisici e virtuali, adibiti […] alla comunicazione dello sviluppo del territorio e del tessuto urbano, […] centro di documentazione e informazione sulla città o luogo di consultazione formale degli interessi, […] sistema informativo utile alle decisioni”, fa pensare a uno scenario di protagonismo dell’amministrazione locale (soggetto ispiratore pressoché univoco della struttura) che conserva un ruolo dirigista nell’indirizzo delle politiche urbane. In tal caso la struttura è finalizzata eminentemente a una mission di tipo propagandistico/comunicativo dell’azione pubblica, con obiettivi volti a legittimare e rassicurare con forme di partecipazione passiva la comunità civica rispetto alla correttezza del quadro decisionale, quasi sempre già definito ex ante attraverso operazioni di concertazione con i soggetti privilegiati. Definizioni che rivelano come nel processo decisionale si faccia ricorso alla riduzione degli attori per via autoritativa, una linea di condotta assolutamente legale ma asettica, nella convinzione che gli attori esclusi (di tipo recessivo) trovino al meglio l’esplicitazione del loro diritto di cittadinanza delegando ai decisori la definizione più appropriata del quadro delle trasformazioni.
Nell’ideale scala del coinvolgimento della civitas rispetto al quadro decisionale, lo strumento dell’Urban Center si colloca su un gradino intermedio quando viene indicato come “luogo dell’interazione sociale, […] luogo d’incontro delle diversità, […] luogo di ascolto della città e messa in comune delle narrazioni dei suoi attori informati, […] luogo di orchestrazione e confronto degli interessi che fanno e domandano città”. In questi casi si ravvisa l’apertura a dimensioni informative tali da legittimare un primo grado di partecipazione consultiva della realtà civica, chiamata a esprimere pareri su specifiche questioni secondo modalità e tempi stabiliti dalle istituzioni, senza tuttavia garantire che i punti di vista espressi divengano parte integrante del quadro decisionale.
Definizioni di queste strutturequali “centro che in qualche modo svolge un’attività di servizio nei confronti degli attori mobilitati (o potenzialmente mobilitati) nei processi decisionali della pianificazione urbanistica, con lo scopo di migliorare l’efficacia (o l’efficienza) di tali processi, […] punto di riferimento per affrontare i processi di decisione, […] canale di accesso della società civile ai processi decisionali che producono politiche d’intervento, […] strumento utile per sviluppare le politiche urbane, svelano un approccio fortemente inclusivo e cooperativo, ove – indipendentemente dall’identità del soggetto ispiratore (ente pubblico, associazione non profit, soggetto misto, etc.) -, si considera indispensabile la partecipazione attiva di tutti gli attori dell’arena urbana favorendo la presenza e l’auto-organizzazione dei portatori di interesse diffuso in special modo nelle prime fasi di definizione delle politiche e delle linee strategiche di sviluppo della città.
Il nodo di fondo resta l’identità dell’Urban Center che dipende in sostanza dal connubio tra soggetto ispiratore e “mission”.
Comune ai diversi stili è certamente la connotazione dell’Urban Center come “Centro di documentazione/esposizione”, “data base” delle vicende urbane, proiettato allo stesso tempo su orizzonti temporali sincronici e diacronici: dal “tempo storico” del “Museo della città e del territorio” con una mostra/archivio permanente di tipo ricostruttivo dei processi di urbanizzazione, al “real time” delle trasformazioni in fieri, alla “vision” dei programmi e piani urbanistici a medio e lungo termine.
Diversi autori lo prefigurano come incubatore di iniziative di “auto-conoscenza” del territorio e di attivazione locale del “terzo attore” per la costruzione di idee, ricerche, laboratori partecipati, linee metaprogettuali, concorsi; luogo di ascolto della città e di condivisione delle narrazioni degli attori dominanti e recessivi, luogo d’incontro delle diversità sociali, economiche, culturali e politiche; un così detto “teatro della polis“.
Nelle accezioni più aperte alla recettività del milieu socio-culturale assume il ruolo di “think tank” di creatività, idee e risorse in simbiosi tra cittadini, business community e altri soggetti d’interesse diffuso, una struttura finalizzata ad accrescere la vivibilità della città e al tempo stesso promuoverne la vitalità economica, vero e proprio “nodo di connessione intermodale” di una rete complessa di traiettorie, filosofie e visioni della comunità civica. Quasi una sorta di “parte per il tutto”, un “frattale” rappresentativo sincreticamente della civitas e dell’urbs, sineddoche di scenari di democrazia partecipativo-deliberativa e di sviluppo fisico-spaziale.
Ma, in definitiva, l’Urban Center sarà lo specchio del modello di democrazia partecipativa e deliberativa che la comunità civica e i suoi decisori hanno scelto: più “pilota”, come nella tradizione nostrana fin qui consolidata o più “arbitro”, se accettiamo le alternative di successo di altre culture di governo?
Il problema resta aperto, ma la strada intrapresa in Italia da alcune strutture più avanzate e stabili nel tempo dimostra che la scelta del modello a geometria variabile e l’allargamento delle occasioni di democrazia deliberativa è praticabile con successo.