CasaCittà – Laboratorio urbano di Trento nasce dal desiderio di capire come funziona la città, di conoscere i suoi meccanismi generativi. Di rintracciare i segni delle sue trasformazioni, di esplicitarli e di renderli comprensibili. Nasce dall’intenzione di dilatare e di rendere più effettiva la categoria di cittadinanza: i cittadini non sono soltanto coloro che vivono la città, che accedono ai suoi servizi e alle sue utilità, sono prima di tutto coloro che partecipano alla costruzione delle sue prestazioni, delle sue regole di convivenza, delle sue strutture di relazione. CasaCittà è un luogo nel quale è possibile esercitare il diritto e il dovere di maturare delle opinioni informate, di esprimerle, di metterle a confronto, di negoziarle. CasaCittà è strumento di partecipazione e di formazione, in un’arena pubblica, di decisioni condivise a basate su accordi che vanno oltre l’astrazione (se non, spesso, la finzione) della categoria di interesse pubblico.
La scelta – operata dal Comune di Trento e dall’Ordine degli Architetti della provincia di Trento – di dare vita a CasaCittà nasce, ormai cinque anni fa, in un momento particolare. E nasce con l’intenzione di interpretare questa particolarità. Era la stagione nella quale importanti trasformazioni – seguendo le prefigurazioni tracciate dal piano strategico – venivano immaginate, venivano progettate, venivano proposte all’attenzione e al dibattito dell’opinione pubblica. Iniziava a svilupparsi ed a prendere forma un nuovo pensiero sulla città, su quello che Trento voleva diventare “da grande”. Due aspetti, da questo punto di vista, apparivano particolarmente importanti. Da una parte, i segni delle trasformazioni volute e delle trasformazioni possibili erano segni forti; l’intenzione generativa non era quella di dare vita ad una “città d’autore”, ad un layout griffato, ma ad una città capace di guardare in maniera esigente alla propria forma, ai propri valori d’uso, alla qualità della vita. Dall’altra parte, si comprendeva come questa trasformazione non si potesse realizzare al di fuori di un disegno condiviso, di una mobilitazione dell’intelligenza collettiva, della ricerca di un punto di convergenza fra plurimi interessi privati e un’ipotesi imprescindibile e indelegabile di bene collettivo, di una promozione sincera di pratiche partecipative. Quella che veniva maturando era una città-cantiere nel senso più autentico, e nobile, di questa parola, nelle sue narrazioni come nelle sue concrete realizzazioni.
Le iniziative di CasaCittà hanno cercato di interpretare queste intenzioni e queste consapevolezze. In parte raccogliendo le tracce, le citazioni, gli elementi costitutivi dei progetti che venivano modificando il volto di Trento: una scelta “redazionale” coerente con un’idea di trasformazione territoriale in divenire, secondo la logica del palinsesto che si modifica per riscritture e sedimentazioni: l’idea, in breve, di un laboratorio che si modifica e si adatta continuamente, si aggiorna, raccoglie e ripropone gli ingredienti del dibattito pubblico, proponendosi anche come memoria delle trasformazioni della città nel loro farsi. E in parte facendosi carico dell’impaginazione di un’agenda che si proponeva di tenere aperti i circuiti di “produzione” e di aggiornamento della pianificazione strategica. Un’agenda che è stata impaginata secondo due criteri essenziali: essere aperta, in quanto luogo istituzionale, a contributi di enti, cittadini, organizzazioni; e cercare di affrontare i temi del cambiamento assumendo e valorizzando la pluralità e la trasversalità dei punti di vista e degli apporti disciplinari, anche per superare inattuali e rischiose separatezze nella pianificazione di settore.
Ad uno sguardo non più retrospettivo, ma aggiornato al momento attuale, si rivela un tema ancora parzialmente irrisolto, che rinvia ad una questione assolutamente centrale e, in qualche modo, “esistenziale” per qualunque Urban Center: quello della partecipazione. Il tema, cruciale, del rapporto fra partecipazione e decisione non ammette soluzioni scontate. E’ un argomento che deve essere riproposto, sia concettualmente, sia alla luce dell’esperienza concretamente maturata, come problema. Si tratta di una questione scivolosa, perché tocca aspettative diverse e spesso inconciliabili. Tocca sensibilità e suscettibilità. Tocca concezioni anche lontane dell’idea stessa di democrazia. Il compito più impegnativo di un luogo istituzionalmente preposto alle pratiche partecipative è, probabilmente, quello di cercare un punto di equilibrio fra il rispetto delle prerogative che appartengono agli organi elettivi e alla tecnicalità ed una crescente domanda di inclusione nei momenti di formazione delle decisioni. Il rischio che si corre, se non si percepiscono i problemi e le attese e non si cerca un criterio d’ordine, è quello di ampliare il solco fra la politica e la società, di sancire la loro incomunicabilità. E questo, in una prospettiva democratica, sarebbe drammatico e inaccettabile.
Chi propone il format di un Urban Center, pur nelle sue plurime declinazioni, esprime prima di tutto una scelta di campo che esclude ogni deriva decisionista, ritenendo il decisionismo non solo politicamente poco desiderabile, ma anche scarsamente praticabile. D’altra parte, è necessario colmare un deficit di decisionalità, dal momento che il compito specifico di un’amministrazione pubblica è quello di deliberare: il rischio, altrimenti, è quello di essere percepiti come inconcludenti oppure di farsi scavalcare dalle trasformazioni. Il nodo della democrazia deliberativa diviene il punto focale di questa prospettiva, in linea con una concezione esigente della politica e del suo “statuto” di forma matura di confronto, dialogo, ricerca di intese. Ma proprio per questo motivo, l’elaborazione del “vissuto” di CasaCittà ci sollecita ad assumere un approccio meno estemporaneo alla partecipazione, cioè una linea di condotta più consapevole e più strutturata di quanto non sia stato finora. A partire dalla capacità, per la politica, di capire (o forse di accettare) una nuova alchimia, secondo la quale il rafforzamento della democrazia diretta non coincide con l’indebolimento della democrazia rappresentativa. Questa opzione, tuttavia, non solo non è scontata: non è nemmeno banale. Perché ci sono alcuni pericoli da evitare. Un pericolo è quello di una gestione solo retorica della partecipazione. La partecipazione è una prassi faticosa, che richiede disponibilità, impegno, preparazione, credibilità; non può risolversi in un rituale. Un altro pericolo è quello della “comitatizzazione”. La democrazia partecipativa, come strumento di inclusione, non può essere confusa con l’organizzazione del dissenso (normalmente su questioni di natura puntuale, rivendicativa, negativa) e con il cedimento nei confronti delle componenti più vocali, anche se spesso meno rappresentative, dell’opinione pubblica. Questo sarebbe prima di tutto antidemocratico e, poi, incompatibile con la fatica del pensiero, con la ricerca paziente di convergenze, con la soluzione tentata e ritentata di problemi di incerta soluzione, che ammettono infiniti valori per infinite incognite. Un ultimo pericolo è quello della confusione fra democrazia e sondaggio di opinione, che ridurrebbe la politica ad un piano di marketing, alla ricerca di un consenso ad immediata esigibilità, ma le impedirebbe di prendere posizione su questioni meno gradevoli per l’elettorato o meno percepibili in una dimensioni capace di guardare lontano.