Il cambiamento del tipo di progetti e di interventi che vengono promossi nella città, finalizzati sempre meno alla nuova espansione e sempre più alla riqualificazione dei tessuti urbani consolidati, e l’esigenza di governare il processo di trasformazione ai vari livelli, dalla progettazione all’attuazione fino alla gestione del realizzato, hanno rappresentato le coordinate di riferimento per i lavori del seminario “Non sprecare la crisi. L’ensemblier, profilo emergente della rigenerazione urbana” che si è svolto a Venezia nell’ambito dell’ultima edizione di UrbanPromo.
A fronte della situazione di crisi economica che da tempo investe i diversi settori della produzione, e che impone una maggiore attenzione sia verso i prodotti urbani da proporre, sia verso le forme da adottare per la gestione dell’intero ciclo di piani, programmi e progetti sul territorio, il seminario coordinato da Manuela Ricci, Bruno Monardo (Sapienza Università di Roma) ed Anna Laura Palazzo (Università degli studi Roma Tre) ha inteso aprire una riflessione attorno all’ensemblier, una nuova figura che la cultura francese sta mettendo a fuoco come declinazione evoluta del tradizionale aménageur.
E’ possibile attribuire la paternità del termine a Thierry Vilmin, direttore della società Logiville ed esperto sulle tematiche connesse ai modelli organizzativi per il coordinamento delle conoscenze e delle competenze necessarie al management dei processi di trasformazione dello spazio urbano.
L’intervento di Vilmin ha costituito la chiave interpretativa per leggere la serie di pratiche di pianificazione presentate nel corso del seminario, che, pur differenziandosi per genere e scala degli interventi, hanno condiviso l’attenzione rivolta alla dimensione gestionale dei processi e la sperimentazione di forme di pilotaggio di operazioni urbanistiche complesse.
All’interno di questa impostazione, la seconda parte del seminario è stata interamente dedicata all’esperienza degli urban center in Italia, rappresentati nell’occasione da Antonio De Rossi, vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino, e da Francesco Evangelisti, coordinatore dell’Urban Center Bologna.
In qualità di coordinatore della sessione, Bruno Monardo ha chiarito il nesso tra il profilo dell’ensemblier e le attività che svolgono, o che possono svolgere, gli urban center.
Rispetto alla figura delineata da Vilmin, Monardo ha rilevato per questo tipo di strutture una serie di analogie e di elementi di sovrapposizione, con particolare riferimento alle funzioni di coordinamento, ai rapporti con il sindaco e con la dirigenza amministrativa, al modo di operare, trasversale ed in condizioni di equilibrio instabile tra registri politici e tecnici.
Inoltre, proprio in relazione al fatto che il coordinamento di tipo sistemico del ciclo lungo della trasformazione della città travalica la mission di breve o di medio termine di un’amministrazione locale, Monardo ha posto come questione centrale l’esigenza di comprendere se, proprio in virtù dei caratteri richiamati, gli urban center italiani possono rispondere alla nuova domanda di regia espressa dai processi di trasformazione urbana.
Da quanto emerge dalle ricerche condotte negli ultimi anni, questo tipo di strutture possono avere funzioni e caratteristiche diverse e di conseguenza differenziarsi tra loro anche in maniera significativa. Infatti, accanto ad un’attività di base, di tipo informativo e comunicativo, gli urban center spesso ne svolgono altre, che variano in funzione delle culture del “fare città” e di quelle riferibili al modello giuridico dell’ordinamento dei paesi in cui essi vengono istituiti.
Incubatori di conoscenza, piuttosto che serbatoi di creatività; luoghi della democrazia partecipativa piuttosto che di quella deliberativa, rappresentano gli estremi di uno schema dicotomico, che Monardo ha proposto come semplificazione e “pendolo interpretativo” per collocare le molteplici forme che gli urban center adottano per coagulare le interazioni tra civitas ed urbs, ovvero tra i portati sociali e culturali espressi dalla comunità estesa e la città fisica.
Così se ad un estremo del pendolo è possibile delineare lo stereotipo della struttura che fa operazioni di pilotaggio, e che è figlia della cultura “ad atto amministrativo” che riconosce alla Pubblica Amministrazione il ruolo di protagonista nella trasformazione della città, all’altro estremo è possibile collocare il modello di derivazione anglosassone, che tende ad interpretare l’urban center più come soggetto arbitro che come regista, occulto o palese, delle trasformazioni urbane, ossia come luogo di costruzione effettiva e partecipata dello sviluppo della città.
Una seconda questione, rispetto alla quale sono stati chiamati a intervenire i rappresentanti dei due urban center invitati al seminario, è stata posta da Matteo Robiglio (Avventura Urbana) che, nel trattare i cambiamenti che hanno interessato il rapporto tra pubblico e privato nella costruzione della città, ha messo l’accento su due tipi di innovazione: un’innovazione di processo e un’innovazione di prodotto.
L’assottigliamento delle differenze tra operatore pubblico, sempre più indotto ad adottare comportamenti e logiche imprenditoriali, ed operatore privato, progressivamente orientato ad aumentare la scala dell’intervento ed a mutare la propria natura, non è sufficiente a spiegare il crescente interesse verso gli esperimenti di innesto di procedure di democrazia partecipativa e di consensus building all’interno delle recenti operazioni di trasformazione urbana.
Infatti, come ha ricordato Robiglio, nelle prime esperienze di urbanistica contrattata, che risalgono alla stagione dei programmi complessi dei primi anni ’90, la strategia di interazione dell’operatore privato con il contesto sociale, politico e territoriale aveva caratteristiche profondamente diverse rispetto a quella di tessitura delle relazioni tipica dell’ensemblier: essa era basata su un rapporto diretto con il centro della decisione, incardinato nella figura del sindaco, in quegli anni notevolmente rafforzata dall’elezione diretta, e sull’utilizzo del brand architettonico come forma di garanzia della qualità dell’intervento. Ad esemplificazione di questo tipo di processo di trasformazione urbana Robiglio ha richiamato il progetto City Life di Milano.
Sempre secondo Robiglio è la recente crisi economica che, contestualmente all’ingresso degli operatori finanziari nelle pratiche urbanistiche ed alla separazione delle figure del costruttore da quella dallo sviluppatore dell’iniziativa, ha spinto ad un ripensamento sul modo di prendere le decisioni (innovazione di processo) e sulla qualità dei prodotti urbani che vengono proposti (innovazione di prodotto). Infatti, a seguito del cambiamento delle condizioni di contesto, il maggiore interesse del privato verso la gestione del processo decisionale può essere spiegato in base a due aspetti: da un lato il progressivo indebolimento della delega ad operare basata sul rapporto diretto con il sindaco e, dall’altro, la perdita di forza dello stesso ruolo del sindaco, dal momento che, coerentemente con quanto è possibile riscontrare in altri settori, la delega dei cittadini ai loro amministratori sembra essere sempre più una delega condizionata.
In questo quadro l’operatore privato ha cominciato a constatare che una parte consistente del tempo necessario a realizzare gli interventi urbanistici ed edilizi è imputabile non tanto ad una carente cultura tecnico-progettuale, ma piuttosto alla scarsa capacità di decidere.
Secondo Robiglio il ricorso a processi decisionali più complessi, che hanno maggiori punti di contatto con l’operato dell’ensemblier, fatto di rapporti partecipativi ed inclusivi e di relazioni reticolari, nasce cinicamente dall’esigenza del privato di ridurre i costi ascrivibili all’incapacità di costruire il consenso e dal tentativo di trarre beneficio dalla sperimentazione di modelli organizzativi capaci di tradurre lo scontro-incontro tra comunità locale, sistema degli attori e trasformazione urbana in uno schema in cui tutti guadagnano.
Parallelamente, l’adozione di questi nuovi processi decisionali può produrre un innalzamento della qualità intrinseca dei progetti e degli interventi: da un lato la comunità estesa ed il mercato chiedono case e spazi urbani diversi da quelli tradizionalmente prodotti, con particolare riferimento ai contenuti tecnici connessi ai temi ambientali; dall’altro l’operatore privato inizia a comprendere che un approccio sostenibile alla progettazione urbana ed edilizia genera dei risparmi, che nello schema di produzione tradizionale sono tutti a favore dell’utente e si traducono in costi per chi promuove l’operazione. Di qui il vantaggio per i promotori a diventare partner che restano nell’operazione e che sono fortemente interessati sia alla qualità delle relazioni che hanno costruito attraverso il progetto, sia alla qualità intrinseca del progetto.
I temi del posizionamento tra cultura ad atto amministrativo e cultura della common law da un lato, e della sperimentazione di innovazioni di processo e di prodotto dall’altro, sono stati declinati nell’intervento di Antonio De Rossi, che ha delineato i caratteri fondamentali dell’operato dell’Urban Center Metropolitano di Torino nell’operazione di trasformazione urbana legata alla realizzazione della Linea Metropolitana 2.
Attraverso il caso presentato al seminario, De Rossi ha messo in evidenza come, accanto a due mission tipiche per un urban center, ovvero quella di indagine sulle trasformazioni in atto e quella di comunicazione delle medesime alla cittadinanza, la struttura torinese ne sta sviluppando una terza, più specifica, che consiste, citando una sua espressione, nel “lavorare nel corpo vivo delle trasformazioni”.
Un lavoro di accompagnamento dei progetti, svolto all’interno dei processi trasformativi della città che, nel caso della Linea 2, si è tradotto in una serie di attività finalizzate a costruire una visione d’insieme per le operazioni connesse alla realizzazione del secondo asse della metropolitana.
Rispetto alla prefigurazione del PRG del 1995, incardinata sui tre assi nord-sud della Spina Centrale, del Corso Marche e del Fiume Po, la messa a sistema degli interventi che ruotano attorno alla Linea Metropolitana 2 è stata concepita come un grande progetto di trasformazione urbana, cui è stato assegnato il compito di integrare e rafforzare le tre centralità/assialità che strutturano la città.
In questo quadro, l’azione di Urban Center Metropolitano si è concentrata sul coordinamento delle diverse progettualità e dei differenti tempi di coinvolgimento dei vari soggetti interessati all’operazione: differenti modalità del progetto insediativo, del progetto infrastrutturale e del progetto sociale, riconducibili alle diverse visioni tecniche e politiche dei settori dell’Amministrazione, ma anche una differente tempistica nella realizzazione delle parti del progetto, che ha posto il problema di far conciliare un’idea integrata di lunga durata con gli interventi da avviare nel breve periodo.
Un lavoro condotto nelle varie sedi all’interno della città, fatto di quotidianità, per poter essere costantemente seguito nel farsi delle diverse parti, e che ha richiesto la continua ricomposizione non solo delle informazioni, ma anche delle prefigurazioni morfologiche delle ricadute di tutti i vari aspetti.
Nell’illustrare il complesso delle attività svolte dall’urban center, De Rossi ha sottolineato due questioni fondamentali: l’importanza per Urban Center Metropolitano di essere una struttura terza al tavolo delle trasformazioni urbane e la natura morfologica dell’azione di accompagnamento ai progetti.
In merito al tema della terzietà, è emerso come la capacità di mettere in rete i diversi attori e di costruire patrimoni comuni di informazioni e di modalità di affrontare il processo, sia strettamente legata alla possibilità per l’urban center di operare trasversalmente rispetto alla macchina pubblica.
Per questa ragione uno dei caratteri fondamentali che connota l’azione della struttura torinese è quello di muoversi su base volontaristica, vale a dire che la modalità tipica con cui essa interviene nei processi è quella di essere chiamata indifferentemente dall’operatore pubblico o da quello privato in funzione del tipo di trasformazione urbana da avviare.
In questa direzione, a sostegno del principio che concepisce Urban Center Metropolitano non come un’ennesima burocrazia, ma come un soggetto garante rispetto ad alcuni tratti delle operazioni che vengono promosse, si colloca la composizione della struttura, finanziata al 50% dall’Amministrazione Comunale di Torino e al 50% dalla Compagnia di San Paolo.
Tuttavia, come ha riconosciuto De Rossi, il carattere “empatico e simbiotico” che il lavoro dell’urban center deve necessariamente avere con gli elementi di contesto per essere efficace, e che si concretizza nell’essere dentro al farsi delle decisioni politiche e delle operazioni tecniche della struttura pubblica, ma operando da fuori e mantenendo l’autonomia dell’azione, definisce un ruolo che rischia di essere costantemente in bilico, ambiguo e molto difficile da svolgere, se non a livello di enunciazione, quantomeno nei processi reali.
Allo stesso tempo, la possibilità di agire trasversalmente, abbandonando qualunque logica autoriale e assumendo un ruolo relazionale e di messa insieme, è alla base del lavoro di apertura dei temi e di prefigurazione progettuale, all’interno del quale la valenza morfologica assume un carattere assolutamente centrale.
In riferimento a questa seconda questione, De Rossi ha rimarcato la necessità per il dialogo di incardinarsi nella morfologia, ossia l’importanza per tutti gli aspetti che compongono il rapporto tra gli attori coinvolti nel progetto di avere una ricaduta non solamente sul processo decisionale, ma anche nelle successive raffigurazioni morfologiche che derivano dalla trasformazione.
Si tratta di una questione non banale perché, come ha evidenziato De Rossi a chiusura del suo intervento, molte volte dal punto di vista morfologico vengono scontati ancora dei ritardi, ossia delle difficoltà di adeguare le trasformazioni che intervengono all’interno del processo rispetto allo stato della trasformazione per come viene immaginata. E tali ritardi spesso provocano delle forti diseconomie nell’operazione, che possono risultare un elemento cruciale per la qualità della trasformazione urbana.
Con accenti e sfumature diverse, i temi della messa in rete dei vari soggetti coinvolti nei processi di trasformazione e dell’integrazione di progettualità diverse, sono stati ripresi da Francesco Evangelisti, che ha illustrato il ruolo dell’Urban Center Bologna nei progetti di rigenerazione urbana avviati alla Bolognina.
Concepita dal piano regolatore del 1889 come primo ampliamento oltre la ferrovia, a nord della città storica, la “piccola Bologna” fu edificata a partire dagli inizi del ‘900, proprio negli anni in cui il capoluogo emiliano, a seguito dello sviluppo della rete ferroviaria nazionale, si stava accingendo a diventare un importante snodo per le principali linee di comunicazione fra nord e sud del Paese.
La particolare condizione urbana di questa parte della città, che, a seguito dell’installazione di grandi impianti produttivi e della concentrazione di residenze operaie, si è da subito connotata come area per le attività industriali, artigianali e di trasformazione legate alla ferrovia, ha costituito uno dei principali motivi del suo recente degrado. Infatti, con la chiusura delle fabbriche, avvenuta tra gli anni ’80 e la metà degli anni ’90, si è verificato un progressivo indebolimento delle strutture della socialità operaia – come ad esempio i circoli ricreativi, le associazioni sportive, le sezioni di partito – che ha provocato la rottura del doppio legame fabbrica-operai e quartiere-abitanti, che aveva da sempre caratterizzato la fruizione degli spazi urbani ed i ritmi di vita all’interno della Bolognina.
L’opportunità di coniugare la riqualificazione dei tessuti urbani non più utilizzati con la ridefinizione dei valori identitari e del ruolo di quest’area all’interno delle strategie di sviluppo della città, ha spinto l’Amministrazione Comunale a sperimentare il coordinamento di tutta una serie di progetti di trasformazione urbana, che erano stati programmati o che già si stavano avviando secondo logiche ed iniziative puntuali.
In questo quadro il Piano Strutturale Comunale approvato nel 2008, che individua nella Bolognina un elemento cardine della Città della Ferrovia e la riconosce come Situazione da pianificare in modo unitario, ha posto le basi per adottare un approccio sistemico nella gestione degli interventi di rigenerazione urbana di questa parte di città.
All’interno dei contenuti tecnico-giuridici del nuovo piano, Città e Situazioni rappresentano modalità di partizione del territorio comunale che, sebbene non previste dalla legge regionale di governo del territorio (LR 20/00), sono state introdotte a fini strategici.
In coerenza con la definizione data da Patrizia Gabellini (consulente generale del PSC), che assimila le Città a “nuove forme di urbanità nel territorio bolognese”, il piano prevede per ognuna di esse un insieme di trasformazioni da realizzare in una catena di luoghi messi a sistema per comunanza di caratteristiche dal punto di vista territoriale, sociale e urbanistico. Le Situazioni, invece, definiscono una serie di aree caratterizzate dalla presenza di relazioni spaziali, funzionali, ambientali e paesaggistiche, per le quali lo strumento urbanistico richiede un trattamento unitario finalizzato alla gestione dei microprocessi di qualificazione diffusa.
Come sottolineato da Francesco Evangelisti, se nell’immagine delle Sette Città è possibile riconoscere una prefigurazione di tipo top-down della trasformazione, in cui vengono definiti i grandi progetti urbanistici che interessano le grandi parti della città, le Situazioni possono essere interpretate come una serie di rappresentazioni di tipo bottom-up, ossia come scenari costruiti anche sulla base della domanda di qualità diffusa emersa dal lavoro svolto con i Quartieri e con i cittadini.
È verso questo secondo tipo di trasformazioni che si sono concentrate l’attenzione e le attività più recenti dell’Urban Center Bologna.
Nel caso specifico della Bolognina, la struttura ha seguito due processi: la ri-progettazione dell’area dell’ex Mercato Ortofrutticolo e la riqualificazione della parte est dell’area, dove la concentrazione di aree militari, produttive e ferroviarie non più utilizzate ha reso l’operazione particolarmente complessa.
Sebbene entrambi i processi abbiano previsto il coinvolgimento degli abitanti attraverso l’attivazione di un laboratorio di progettazione partecipata, si è trattato di due esperienze molto diverse tra loro, all’interno delle quali l’urban center non ha avuto lo stesso ruolo.
Nel caso dell’area dell’ex Mercato, dove il percorso partecipativo è stato attivato a partire dalla reazione della cittadinanza ad un Piano Particolareggiato adottato dall’Amministrazione e non condiviso dai residenti della zona, la struttura bolognese non ha contribuito in modo diretto alla revisione dei contenuti del progetto, ma ha svolto un’attività di comunicazione, di documentazione e di rilancio delle informazioni.
Nel secondo caso, probabilmente anche sulla scorta dell’esperienza maturata con il processo condotto per l’area dell’ex-Mercato, l’urban center ha operato per favorire la convergenza e l’integrazione dei diversi saperi: da una parte quelli che vengono definiti “esperti”, espressi dagli enti competenti, dalle società interessate alle trasformazioni e dagli sviluppatori privati, e dall’altra quelli riconducibili alla “conoscenza diffusa”, patrimonio degli abitanti che, in forma associata o come singoli cittadini, rappresentano i soggetti più interessati all’esito delle operazioni di riqualificazione e di rigenerazione dei luoghi.
Tentando di incrociare le questioni poste da Bruno Monardo e da Matteo Robiglio con le recenti esperienze degli urban center di Torino e Bologna, è possibile rilevare come, almeno nel caso italiano, è molto difficile posizionare in modo definito queste realtà all’interno dello schema dicotomico proposto da Monardo.
Il ruolo e le attività svolte da Urban Center Metropolitano e Urban Center Bologna nei processi di trasformazione urbana, sembrano confermare una forte ibridazione del modello ad atto amministrativo con quello di derivazione anglosassone, che porta ad osservare, recuperando l’espressione usata da Enrico Falqui (Università degli Studi di Firenze) nel dibattito di chiusura del seminario, una “polinomia di urban center”.
Infatti, accanto ad alcuni caratteri comuni, che possono essere ricondotti al lavoro di acquisizione, di semplificazione dei linguaggi tecnici e di traduzione in codici comprensibili al cittadino della molteplicità delle trasformazioni che avanzano in contemporanea e modificano la città (funzioni di conoscenza e di comunicazione), stanno emergendo diverse modalità di accompagnamento del ciclo del progetto, all’interno delle quali vengono declinati e si differenziano gli aspetti connessi ai temi della terzietà e del rapporto tra innovazione di processo e di prodotto.
Da un lato, Urban Center Metropolitano sta fondando la possibilità di agire in modo trasversale rispetto alla macchina pubblica sulla sua capacità di organizzare il confronto intorno alla prefigurazione morfologica delle trasformazioni, ossia costruendo la sua autonomia ed autorevolezza attraverso l’offerta di un supporto tecnico in grado di orientare il lavoro di soggetti pubblici e privati e progettisti nelle operazioni di maggiore complessità e rilevanza.
Dall’altro lato, Urban Center Bologna sta affinando e sviluppando un ruolo di pilotaggio dei processi di trasformazione, che consiste nel favorire l’integrazione di saperi esperti e conoscenza diffusa attraverso la predisposizione di luoghi in cui soggetti pubblici, imprenditori e cittadini possano manifestare le loro istanze e costruire quadri condivisi.
In questa seconda modalità di intervento la possibilità per l’urban center di mantenere il carattere di struttura terza sembra essere ricercata attraverso la capacità di dar vita ad una vera e propria cabina di regia, come conferma la scelta di ricorrere a bandi e ad altri sistemi di selezione per avvalersi del supporto di altri soggetti nella gestione dei diversi segmenti del processo.